Un po’ di Storia

L’introduzione nella pratica medica dell’utilizzo delle analisi di laboratorio ha rappresentato di fatto uno spartiacque tra l’antico e il moderno concetto di malattia e di medicina.

Era il XIX secolo, epoca di profonde trasformazioni politiche, economiche, culturali e sociali. Fino ad allora, la pratica medica si basava essenzialmente sul Corpus ippocratico, manuale non solo che conteneva nozioni di storia della medicina ma che costituiva una vera e propria guida pratica per lo svolgimento della professione.

Ippocrate definiva lo stato di malattia come un’alterazione che riguardava l’intero organismo. Proprio come la natura era definita come l’equilibrio tra i quattro elementi (fuoco, acqua, terra e aria), allo stesso modo l’uomo era costituito dai quattro umori fondamentali (sangue, flegma, bile nera e bile gialla) e l’equilibrio tra questi rappresentava lo stato di benessere. La malattia si instaurava nel momento in cui uno dei quattro umori fosse diventato prevalente sugli altri causando di fatto un disequilibrio. Essendo l’uomo strettamente connesso con l’ambiente esterno, qualunque alterazione che quest’ultimo avesse prodotto sull’organismo poteva di fatto causare tale disequilibrio. La malattia non era identificata da una specifica causa ma piuttosto dall’effetto che tale causa produceva sull’organismo. Tale effetto era la manifestazione di uno squilibrio che coinvolgeva tutto l’organismo e che poteva mutare nel tempo in un’altra malattia: il disequilibrio causato da un agente esterno poteva ad esempio causare la tosse in un primo momento per poi mutare in febbre.

Nell’800, tale concezione della malattia cominciò a vacillare in conseguenza alla possibilità di studiare gli effetti delle malattie sul corpo umano attraverso le autopsie. Lo studio delle lesioni che le malattie producevano sugli organi portò sempre più a credere che le malattie non interessassero tutto l’organismo, ma che colpissero degli organi o dei sistemi specifici e che le manifestazioni, che prima erano identificate con la malattia, fossero conseguenza di tali lesioni. Si passò quindi al concetto di malattia come affezione che colpisce specifici organi e che produce sintomi correlati alle lesioni da essa prodotte. D’altra parte, lesioni simili potevano essere riscontrate in pazienti con sintomatologia diversa e sintomi simili potevano essere prodotti da diversi tipi di lesioni. Fu forse questo a spingere gli scienziati dell’epoca a ricercare quali fossero le cause che producevano tali lesioni e classificare i diversi quadri patologici non esclusivamente sulla base della loro rappresentazione anatomica o sintomatologica, ma sulla causa che li produceva.

La scoperta cardine che consentì di approfondire e ricercare le cause delle malattie fu l’invenzione del microscopio. Inizialmente il microscopio fu utilizzato soprattutto come strumento didattico che permise di studiare gli effetti delle malattie sui tessuti, non solo a livello macroscopico (ovvero attraverso l’osservazione delle lesioni ad occhio nudo) ma a livello cellulare. Una delle opere più importanti che segnarono l’era della microbiologia fu il Die Cellularpathologie, pubblicato dal patologo Virchow nel 1858, che dimostrava come ogni malattia in realtà nasceva da alterazioni all’interno delle cellule che si riflettevano poi in lesioni a livello dei tessuti e nel quadro sintomatologico che poteva essere percepito dall’esterno.

Tale approccio, se pur fondamentale almeno in fase di studio delle malattie, risultava tuttavia di difficile applicazione in vivo perché presupponeva di riscontrare il danno provocato dalla malattia dall’osservazione al microscopio di tessuti provenienti dai diversi organi. Agli inizi dell’800 inoltre c’erano forti limitazioni nel metodo di conduzione della visita medica, dettate soprattutto da imposizioni di tipo sociale e culturale: molto spesso, infatti, l’unico strumento di cui il medico potesse avvalersi per comprendere la condizione del paziente e formulare una diagnosi era l’anamnesi, ovvero la raccolta di informazioni. Tali informazioni erano molto frammentarie e disorganizzate e molto spesso il medico non aveva contatto diretto con il paziente a causa della difficoltà negli spostamenti, ma riceveva sue notizie attraverso scambi epistolari la cui fonte di tali scritti era spesso incerta. In quest’epoca di rivoluzione, tuttavia, emerse sempre di più la necessità per i medici di raccogliere informazioni più precise, anche attraverso l’osservazione dell’ambiente in cui viveva il paziente e del suo stile di vita. La conduzione del colloquio col paziente divenne sempre più precisa e organizzata e iniziò a comprendere anche informazioni circa i famigliari che prima non venivano prese in considerazione. L’esame obiettivo (ovvero la visita del paziente) si fece sempre più articolata e, grazie all’invenzione di strumenti quali il termometro, lo sfigmomanometro e lo stetoscopio, si riuscì sempre di più a mettere in relazione i reperti autoptici che avevano messo in evidenza i danni causati dalle malattie con reperti semeiologici, ovvero alterazioni che potevano essere percepite sulla superficie del paziente senza ricorrere necessariamente alla visione diretta del tessuto danneggiato. La necessità di reperire informazioni che fossero quantificabili, riproducibili e di facile reperimento, spinse gli scienziati a ricercare tali dati attraverso l’analisi di materiali biologici su cui l’accesso fosse semplice. Inizialmente si analizzarono le urine: l’esame delle urine era una pratica che già Ippocrate stesso metteva in atto, ma con l’avvento del microscopio, fu possibile mettere in evidenza alterazioni che prima era impossibile ricercare. Nei suoi scritti, il medico inglese Richard Bright descrisse come l’insufficienza renale poteva produrre alterazioni che potevano essere rilevate nelle urine (in particolare la presenza di proteine) in maniera proporzionale al danno che riportava l’organo stesso. La pratica dell’uroscopia divenne così importante che divenne un esame routinario in tutti i pazienti che venivano ricoverati. Tale pratica assunse tuttavia un’importanza limitata soprattutto alle patologie renali quando si diffusero strumenti che rendevano sempre più agevole il prelievo ematico. Il sangue, infatti, conteneva sostanze che potevano fungere da marcatori di molte più malattie, ma fino agli inizi del ‘900 difficilmente veniva usato come esame di comune pratica poiché gli strumenti dell’epoca rendevano il prelievo macchinoso e producevano dolore e ansia nel paziente. D’altra parte, l’analisi della composizione del sangue permise l’identificazione non solo di malattie strettamente correlato ad esso (anemia, leucemia…) ma anche di caratteristiche di altre condizioni fino ad allora poco conosciute (l’aumentato glucosio come causa del diabete, l’aumentata uricemia come causa della gotta…).

L’analisi dei liquidi biologici permise inoltre l’identificazione e la classificazione di microorganismi responsabili delle malattie infettive: si studiarono infatti non solo colorazioni che permettessero di differenziare alcuni microorganismi da altri ma anche sostanze (terreni di coltura) che ne favorissero la crescita in vitro per una più accurata distinzione. Tali metodiche, seppur in modo più preciso, sono utilizzate ancora oggi nell’ambito della microbiologia e delle malattie infettive.

Il XIX secolo può essere pertanto considerato il secolo in cui è nata la medicina moderna o almeno in cui si sono poste le basi sulle quali questa si fonda ancora oggi. Le innovazioni tecnologiche di questo secolo hanno rivoluzionato non solo il concetto delle malattie ma anche l’approccio che viene utilizzato nella diagnosi, nella terapia e nella cura di esse.

 

Bibliografia

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